di Redazione
Due teste sono meglio di una? Il fascino della governance duale di una azienda resta alto e rappresenta sempre una opzione in caso di necessità per dare una svolta alla gestione considerata inadeguata o alla sonnolente quotidianità di business consolidati. Ma è una opzione non valida sempre, in ogni occasione e per ogni azienda. Lo confermano una analisi di Harvard Business Review e una inchiesta di Financial Times.
«Il successo della condivisione del potere ai vertici dipende da molteplici fattori», sintetizza Harvard Business Review: «forte impegno verso la partnership da parte di entrambi i leader, due serie di competenze complementari, patti di responsabilità chiari e processi decisionali, meccanismi prestabiliti per la risoluzione dei conflitti, responsabilità condivisa, supporto senza se e senza ma del consiglio di amministrazione e strategia di uscita concordata fin dall’inizio». Gli autori avvertono che «il modello del co-Ceo non funzionerà ovunque, ma per le aziende grandi e poliedriche, quelle con una gestione agile e quelle impegnate nelle trasformazioni tecnologiche, è un’opzione promettente».
Guardando alle esperienze passate, delle 2.200 società quotate nell’S&P 1200 e nel Russell 1000 dal 1996 al 2020, meno di 100 erano guidate da co-amministratori delegati. Inoltre, durante quel periodo, soprattutto in fasi di stress, alcune di queste società condotte congiuntamente hanno ottenuto risultati particolarmente deludenti, tra cui Chipotle Mexican Grill, la società di software Sap e il pioniere della telefonia mobile Research In Motion (che è diventato BlackBerry nel 2013). Molti osservatori non lo trovano sorprendente. Installare due decisori al vertice, secondo la teoria, porta quasi invariabilmente a problemi sotto forma di conflitti, confusione, incoerenza, irresoluzione e ritardi. Marvin Bower, che ha costruito McKinsey, ha notoriamente avvertito Goldman Sachs di non avere co-Ceo. “La condivisione del potere”, ha detto, “non funziona mai”. Solo che spesso, in effetti, lo fa. Recentemente sono state valutate le performance di 87 aziende pubbliche i cui leader sono stati identificati come co-Ceo. e si è scoperto che tendevano a produrre più valore per gli azionisti rispetto alle loro concorrenti. Mentre erano in carica, i co-Ceo hanno generato un rendimento medio annuo per gli azionisti del 9,5%, significativamente migliore della media del 6,9% dell’indice di ciascuna società. E quasi il 60% delle aziende guidate da co-Ceo ha sovraperformato. Con una caratteristica comune: il mandato di co-Ceo non è stato di breve durata, ma più o meno uguale a quello di amministratore delegato unico: circa cinque anni, in media.
Non si sta certo suggerendo che tutte le organizzazioni dovrebbero affrettarsi ad adottare un accordo di co-Ceo. Anzi. Il campione esaminato non è abbastanza grand ma alcune considerazioni si possono ragionevolmente fare. Per le aziende in settori stabili che affrontano solo variazioni moderate, avere un unico amministratore delegato potrebbe essere ancora l’opzione migliore. Ma oggi il lavoro di gestione di un’azienda è diventato così complesso e sfaccettato, e la portata delle responsabilità così ampia, che il modello del co-Ceo merita uno sguardo nuovo e attento. Ciò è particolarmente vero per le aziende che si spostano decisamente verso una gestione basata sull’agilità e per quelle che intraprendono trasformazioni basate sulla tecnologia. «Adoro questo modello», ha dichiarato al Financial times Jeff Horing, amministratore delegato della società di private equity Insight Partners, che supervisiona un portafoglio di 350 società tecnologiche: «Nelle giuste circostanze, è straordinario quanto possono fare i co-Ceo. Possono apportare competenze, background e prospettive profonde e diversificate al lavoro. Possono trovarsi in due posti contemporaneamente, letteralmente. Possono formare una partnership emisfero sinistro-emisfero destro». Un ceo, per esempio, può concentrarsi sulla trasformazione guidata dalla tecnologia mentre l’altro si occupa degli aspetti più tradizionali del business, come marketing, finanza e operazioni. Uno può appoggiarsi all’interno, l’altro all’esterno. Insieme potranno padroneggiare le funzioni aziendali sempre più complesse che oggi gli amministratori delegati devono gestire, comprese le relazioni con gli investitori, le risorse umane e la conformità normativa. Se una metà dei due se ne va, l’altra può garantire una transizione stabile.
Ma c’è anche una condizione nella realtà, diffusa anche in Italia, di co-Ceo coppie di fatto, composte da un presidente, magari esponente della famiglia proprietaria, e da un amministratore delegato, magari un manager esterno. O, tradizionalmente nelle aziende familiari che riescono gestire la transizione, con un presidente padre e un ceo figlio o, sempre più, figlia.
.