Elena Fausta Gadeschi
Nel 2019, quando era arrivata ad essere valutata privatamente 47 milioni di dollari, WeWork era percepita come la classica “unicorn company” dalla crescita esponenziale, che in una manciata di anni aveva scalato e sorpreso qualsiasi previsione di mercato con la sua offerta di spazi di co-working per imprenditori e multinazionali. Dopo un fallimentare tentativo di debutto a Wall Street, nell’ottobre 2021 arrivò a quotarsi in Borsa a valori ben più ridimensionati (8 miliardi), due anni più tardi il capitale dell’azienda, fondata nel 2010 a New York da Adam Neumann e Miguel McKelvey, è valutato intorno ai 165 milioni di dollari. In questo spazio di tempo che ha rivoluzionato il mercato del lavoro, è successo di tutto, a cominciare da una pandemia che ha trasformato le abitudini e l’approccio dei lavoratori. L’esempio plastico di questo cambiamento si è visto con la discesa inarrestabile del più famoso provider di uffici flessibili, il cui titolo è arrivato a toccare 1,21 dollari e che secondo il Wall Street Journal potrebbe presentare istanza di fallimento la prossima settimana.
I posti vacanti negli uffici aumenteranno
Insieme al futuro di WeWork è in biblico anche il mercato immobiliare di tutti i business hub in giro per il mondo. Per crescere più velocemente in molte grandi città, negli anni precedenti al Covid l’azienda aveva siglato con i proprietari degli immobili lunghi contratti d’affitto a valori anche superiori alla media, drogando un mercato che oggi non esiste più. Come evidenzia un’analisi di Reuters, con lo scoppio della pandemia WeWork ha faticato a convincere alcuni clienti a sostituire il lavoro da casa con l’ufficio nelle sue oltre 650 sedi in tutto il mondo, una tendenza che ha scosso la fiducia nel settore. Di fatto l’aumento degli uffici vacanti ha messo gradualmente sotto pressione gli investitori, allontanando oggi la possibilità di un rifinanziamento dei mutui ipotecari nel prossimo anno e mezzo. Tanto più che secondo le previsioni di alcuni specialisti, i posti vacanti in tutto il mondo aumenteranno, danneggiando le prospettive di affitto in città come New York e Londra.
«La perdita di qualsiasi inquilino, soprattutto in un periodo di locazione di uffici relativamente lento, avrà un impatto negativo sui flussi di cassa e sui valori degli edifici per uffici», spiega a Reuters Jeffrey Havsy, responsabile della pratica del settore immobiliare commerciale di Moody’s Analytics. «Ciò si aggiungerà al sentiment negativo del mercato e renderà più difficile il finanziamento, in particolare per quegli edifici che devono essere rifinanziati nei prossimi 12-18 mesi». Il numero e il volume dei prestiti immobiliari in scadenza per il rifinanziamento nel 2024 non sono chiari perché molti accordi vengono conclusi privatamente tra mutuatario e prestatore, ma gli analisti stimano che il mercato globale dei prestiti immobiliari commerciali abbia una dimensione di circa 2 trilioni di dollari, suddiviso a metà tra banche e istituti di credito alternativi negli Stati Uniti e rispettivamente in proporzione 85 a 15 in Europa.
Un rapporto pubblicato a settembre dalla società britannica di servizi immobiliari Savills spiega che il valore di tutti gli immobili globali – residenziali, commerciali e agricoli – è stato stimato nel 2022 a 379,7 trilioni di dollari, in calo del 2,8% rispetto al 2021. Mentre il rapporto Capital Trends di MSCI per l’Europa mostra che i volumi del terzo trimestre sono diminuiti del 57% rispetto ai livelli del 2022, mai così in basso dal 2010. Inoltre, il divario tra ciò che gli investitori ritengono valgano gli asset e ciò che i potenziali acquirenti sono disposti a pagare è compreso tra il 20% e il 35%.
Limitandosi ai due principali mercati europei di uffici, Gran Bretagna e Germania, si prevede che i prezzi dovrebbero scendere di un altro 13-15% per riportare la liquidità del mercato alla sua media di lungo periodo, mentre per le società del settore aumenta del 9% la probabilità di insolvenza rispetto a quanto stimato 12 mesi fa. Un’aspettativa più rosea rispetto a quanto valutato dai fondi comuni di investimento immobiliare industriale e per uffici (Reit) statunitensi, che registrano il 35,8% di probabilità in più di insolvenza, rispetto alle aspettative di un anno fa.
Il lavoro oltre il co-working: «Il mio spazio sono io»
Ma la crisi di WeWork, oltre a sollevare domande sull’immobiliare per uffici, ne pone altre di carattere più generale. In particolare, se non sia il sintomo di un’ulteriore evoluzione nel modo di concepire il lavoro. «Il Covid ha cambiato tutto, non solo perché questi luoghi sono rimasti deserti, ma perché tutti, soprattutto le giovani generazioni, si sono riorganizzati per sopperire a questa mancanza – spiega, per esempio, il sociologo Francesco Morace, in libreria con il suo nuovo libro Modernità Gassosa-Istruzioni di volo contro la sindrome del pallone gonfiato (Egea, 2023, pp. 128, € 16,50), dove descrive una società sempre più volatile, che evapora sulla spinta dei social media e di una dimensione digitale dominante –. Non c’è più bisogno di qualcuno che crei degli spazi di co-working per noi, perché ciascuno lo fa a proprio modo, anche sulla base della libertà che lo smartworking ha creato. È l’estrema conseguenza della concezione del non-possesso: non abbiamo bisogno di nulla di fisico, nemmeno di un luogo dove ritrovarci. Chi deve fare una riunione, intanto fa una call, e se proprio ha bisogno di vedersi, lo fa al bar, al ristorante preferito, al parco se c’è bel tempo. Non c’è bisogno di uno spazio di riferimento. Il mio spazio sono io, la mia scrivania è il mio laptop e lo posso mettere sulle gambe, su una panchina, sulla sabbia o in qualsiasi altro luogo. Le nuove generazioni si incontrano comunque, sono oltre l’ufficio privato e oltre il co-working. Se prima poteva essere una scelta discutibile o non apprezzata da alcuni clienti, oggi siamo al di là di tutto questo. La credibilità è quello che tu riesci a garantire in quel momento al tuo cliente, con o senza una sedia».
Il destino della sharing economy dipende dalla Gen Z
«La sharing economy è stata un po’ una bolla – è l’opinione di Alessia Camera, esperta di startup, growth hacking e strategie digitali –. Se guardiamo per esempio Airbnb, ha creato senz’altro opportunità, ma nel lungo termine stiamo ancora cercando di capire qual è stato il vero valore dato all’economia. Ha permesso che le case fossero affittate secondo meccanismi diversi rispetto agli hotel, però adesso c’è tutto il downside degli affitti brevi, che fanno aumentare il canone anche per i residenti. Dal punto di vista dei trasporti, le persone hanno avuto modo di condividere una mobilità leggera, ma allo stesso tempo le città sono state invase dai monopattini. Sono tutti settori relativamente nuovi, che si trovano a fare i conti con un contesto economico e macroeconomico che sta cambiando velocemente. Ma questo non significa che da qui a 5 anni non possa non esserci un’importante spinta. Sarà da vedere cosa farà la Gen Z, che sta incominciando a lavorare adesso, che non riesce a comprare casa e che ha un approccio mentale diverso per esempio sul tema del cambiamento climatico. La spinta ambientalista potrebbe avere un impatto positivo sulla mobility, ma anche sul second hand in ambito energetico con gli smart grid (un sistema di distribuzione “intelligente” dell’energia elettrica, ndr)».
Il fallimento di WeWork appare insomma il segno di un cambiamento dei tempi inarrestabile, dove istanze ambientaliste che vedono nello smartworking uno strumento utile alla lotta all’inquinamento e ai cambiamenti climatici si fondono con nuove esigenze dei lavoratori, in cerca di una migliore work-life balance.