di Redazione
«Le grandi imprese storiche hanno rinunciato a priori a essere protagoniste delle privatizzazioni e le hanno usate in modo opportunistico per conseguire facili profitti di breve periodo o per spostarsi dall’industria ai servizi, cioè ai settori protetti dalla concorrenza internazionale, attratte anche da liberalizzazioni che concedevano tariffe molto generose e da un sistema di tutele che ha dimostrato di non tenere in adeguato conto le esigenze dei consumatori e in genere dell’efficienza del mercato»».
Bisogna arrivare a pagina 335 (dopo una lettura che ripaga) per avere una chiara chiave di lettura del sistema economico italiano e delle occasioni mancate con accuse puntuali alla classe dirigente, alla politica e agli imprenditori italiani. Una inchiesta approfondita, non scritta da giornalisti d’assalto ma da due esponenti del sistema, due protagonisti che hanno potuto esaminare dal di dentro le malattie di un organismo chiamato Italia: Pietro Modiano, banchiere di lungo corso (Credito italiano, Unicredit, Intesa San Paolo, Carige come commissario), e Marco Onado, docente all’Università Bocconi, ex commissario Consob dal 1993 al 1998. L’analisi dettagliata e senza reticenze (Illusioni perdute: banche, imprese, classe dirigente in Italia dopo le privatizzazioni, il Mulino) mette a nudo i valori e le debolezze delle imprese e degli istituti di credito dai cui rapporti avrebbe dovuto derivare una fase di forte sviluppo, un secondo miracolo economico, partendo proprio dalle privatizzazioni. Un tesoretto enorme accumulato nei decenni delle imprese di Stato (Iri, Eni, Efim) con fortissimi investimenti accumulati da monetizzare a valori di mercato (in realtà molto deludenti per favorire i compratori) e da valorizzare come energie da moltiplicare nella libera competizione che crea sviluppo per il sistema Paese nel suo complesso. I nomi e le singole storie sono noti (Telecom, Autostrade, Alitalia, Ilva e le stesse banche) ma mai riuniti in una sistematica descrizione e valutazione organica che sola, tenendo conto degli interessi in gioco e degli intrecci socio-politici, consente una valutazione motivata.
Le privatizzazioni dovevano rappresentare il big bang per uno slancio dell’azienda Italia con un nuovo rapporto pubblico-privato, moderne regole del gioco e valide armi per la competizione globale. «Veniva messo sul mercato un patrimonio colossale: una buona parte della fascia alta del sistema produttivo italiano, il quinto al mondo all’epoca, oltre che la quasi totalità del sistema bancario». Invece, scrivono Modiano e Onado, «si sono formate cospicue rendite di posizione, che in molti casi (quello delle autostrade è il più clamoroso) hanno consentito extra-profitti a scapito dei consumatori o, addirittura, della sicurezza. In altri casi, come quello di Telecom, la politica non ha potuto o voluto bloccare un’acquisizione che chiaramente era destinata a mettere piombo sulle ali di una azienda che avrebbe dovuto investire pesantemente in un settore in forte trasformazione tecnologica, condannando così al declino un gruppo che era all’avanguardia dal punto di vista tecnologico e fra le principali al mondo».
La disamina del passato (Il risultato è un declino del Paese: vedere grafico qui sotto sulla produttività totale dei fattori) è una lezione per il futuro. Dipenderà dai protagonisti di oggi e di domani della politica, dell’imprenditoria e della società. La vera eredità di questo volume («Puntare al cambiamento con uno scatto morale collettivo») dovrebbe essere consegnata alle nuove generazioni come testo adottato nelle Università.
Il risultato? Un declino
A confronto la produttività totale dei fattori, che è un indicatore sintetico del progresso tecnico, di Germania, Stati Uniti e Italia, che cresce solo fino agli anni Ottanta e poi inizia una fase discendente che riporta il Paese ai livelli di metà anni Sessanta.