di Paolo Stefanato La notizia che Lufthansa ha comprato il 41% di Ita, la compagnia nata dalle ceneri di Alitalia, non ha avuto l’eco mediatica che meritava. Ci si sarebbe aspettato di trovare ampie paginate sui quotidiani, che invece hanno riferito i dati dell’operazione ma senza largheggiare in retroscena, commenti, dettagli tecnici e legali. Che la notizia fosse importante non vi è dubbio: i tedeschi, in base agli accordi appena firmati, nei prossimi anni saliranno in maggioranza e lo Stato italiano alla fine resterà con il 10%; si tratta, a ben guardare, della soluzione di un problema ultra-ventennale, e che la compagnia oggi si chiami Ita e non più Alitalia non significa che non si tratti della stessa vicenda, coperta da una pietosa foglia di fico. Lufthansa acquista in conto aumento di capitale, quindi i denari andranno versati direttamente nelle casse della compagnia italiana; questo certifica la necessità di risorse di quest’ultima, che è una specie di start up con i conti in profondo rosso: 1,3 milioni di perdita al giorno, quasi l’equivalente di quello che perdeva Alitalia. Legittimo chiedersi: che senso aveva creare una nuova compagnia per perdere gli stessi soldi? Tenendo conto poi che dal 2021 i contributi pubblici destinati a Ita ammontano a 1,35 miliardi. In realtà Ita è nata per non disperdere esperienze e per salvare occupazione non c’è alcun altro motivo plausibile. Nonostante la “discontinuità” richiesta e approvata dall’Europa, Ita ha riassunto alcune migliaia di dipendenti Alitalia e altri ha in programma di prenderne, arginando una più massiccia perdita di posti di lavoro. La nuova compagnia si è riorganizzata in fretta sul modello della precedente acquisendo dalla liquidazione di Alitalia gli asset aeronautici, gli slot, i diritti bilaterali, il marchio (finora inutilizzato); solo il programma Mille Miglia è rimasto ai commissari, insieme a manutenzioni e handling, oggetti di altri bandi. Il nuovo vettore ha puntato su qualità e puntualità, ma fin da subito è stato annunciato che non era prevedibile un futuro solitario, “stand alone” come si dice, ma che avrebbe dovuto cercare un partner industriale dalle spalle larghe. Ci si è messo un bel pezzo prima di firmare con Lufthansa, che da anni era alla finestra ad aspettare; essa ancora ai tempi dei bandi per la vendita di Alitalia sosteneva che quella compagnia era troppo grande e che andava ridimensionata; ora che finalmente lo si è fatto, si è arrivati alla conclusione. Il quesito che molti si pongono è molto semplice: può un Paese a vocazione turistica come l’Italia, ricco anche di relazioni d’affari con l’estero, fare a meno di una compagnia nazionale che rappresenti adeguatamente il Paese? Non sono più i tempi dei monopoli, quindi la risposta non può che essere: sì, può farne a meno; quello che conta è il mercato, se c’è domanda c’ anche offerta e chiunque la fornisca otterrà lo stesso risultato, almeno in teoria. L’unico punto è che le decisioni saranno prese altrove, con tutto ciò che questo comporta. Ma forse non sarà un male, visto che gli abusi, casomai, li faceva Alitalia quando apriva e manteneva tratte antieconomiche solo per assecondare i capricci di qualche ministro. Questo, almeno, non accadrà più: con Luftansa la prospettiva è di una gestione efficiente, priva di quelle incrostazioni politiche che hanno caratterizzato Alitalia; la quale era anche ostaggio dei sindacati (non va dimenticato che era una delle più grandi imprese da Roma in giù), come si è ben visto in due occasioni determinanti: quando i lavoratori impedirono l’acquisto da parte di Air France, nel 2008, e quando nel 2017 con un referendum bocciarono l’aumento di capitale proposto da Ethiad (socio al 49%), cosa che portò per la seconda volta alla liquidazione (le liquidazioni di Alitalia tuttora in corso sono due, caso più unico che raro!). Ripensare oggi alle (favorevoli) condizioni che Air France aveva messo sul piatto allora provoca un profondo senso di rabbia. Il fatto di entrare oggi nel più grande gruppo aeronautico d’Europa è una garanzia: il modello indicato è quello già sperimentato con l’acquisizione da parte di Lufthansa di altre compagnie ex di bandiera, Swiss, Austrian e Sabena, che sono state risanate, rese operativamente indipendenti, ma gestite con accorte politiche contabili, valorizzando al massimo le economie ottenibili dalla gestione centralizzata degli acquisti, soprattutto di carburante, e delle piattaforme commerciali. In Italia Lufthansa possiede anche Air Dolomiti (attiva soprattutto nel feederaggio con la Germania) con la quale ora saranno studiate le opportune sinergie. Come già accaduto per le altre acquisizioni, Ita sarà portata in tempi ragionevolmente brevi al pareggio e al profitto; sarà rafforzata integrando e valorizzando tutte le attività complementari al nuovo gruppo, sviluppando i collegamenti con America Latina e Africa e dando così nuove opportunità anche allo scalo di Fiumicino. La firma degli accordi ha sancito, di fatto, la fine di una vicenda più che ventennale. Quasi per una sorta di maleficio, il trasporto aereo in Italia, che si identificava con Alitalia, non ha mai avuto fortuna; non c’è un motivo preciso (ce ne sono tanti), ma certo ha pesato anche la conformazione geografica del Paese che, essendo lungo e stretto, suggeriva un’organizzazione basata su due aeroporti hub, rivelatasi fallimentare. Sicuramente Alitalia ha mancato per un soffio la scelta giusta alla fine degli anni Novanta quando ideò la fusione con l’olandese Klm, un modello di partnership allora avveniristico purtroppo affossato dalla politica e dalle solite beghe nazionali (vedi dibattito Malpensa sì, Malpensa no). Negli anni seguenti le crisi di Alitalia si sono succedute senza rimedio, con una costante erosione di capitali e di ricchezza. (E intanto Air France copiava l’operazione mancata di Alitalia e si sposava con con successo con Klm). I tentativi di risanare e rilanciare un’azienda che pur godeva ancora di un certo appeal videro a un certo punto protagonisti anche alcuni dei più blasonati gruppi familiari italiani che, sulla scia nazionalistica impressa dal governo Berlusconi, e grazie all’impegno di regia finanziaria assunto da Intesa Sanpaolo, furono coinvolti in un’avventura (era il 2009) anch’essa destinata a svaporare qualche anno dopo: questi imprenditori furono chiamati Capitani coraggiosi, espressione che rendeva l’idea anche del livello di rischio al quale andavano incontro. Nomi più noti e meno noti, con diverse quote di capitale, in qualche modo protetti da Intesa, tutti uniti in questa specie di club che intendeva fare, sì, l’interesse dell’Italia ma anche ritagliarsi un bel credito verso la politica. C’erano Roberto Colaninno, i Benetton, la famiglia Aponte, i Riva, i Ligresti, Salvatore Mancuso, Carlo Toto, la famiglia Fossati, i Marcegaglia, Bellavista Caltagirone, i Gavio, Davide Maccagnani, Traglio, Orsero, Percassi… Nemmeno loro ci riuscirono e rielencare dopo tanti anni questi nomi fa anche riflettere sulle alterne fortune che hanno contrassegnato in seguito alcuni di essi. Tornando al quesito originario, e cioè perché la conclusione di una vicenda così lunga e importante sia passata un po’ sottotraccia, una ragione c’è: il governo che ha portato a compimento questo lungo e impegnativo iter è un governo di destra, composto da forze che in passato hanno sempre difeso l’italianità di Alitalia. Essere di fatto costrette a compiere un’operazione in precedenza osteggiata ha indotto tutti a scegliere, per quanto possibile, il basso profilo. I giornali, a loro volta, si sono accontentati delle fonti ufficiali e non hanno scavato come avrebbero fatto in un’epoca diversa. Non è stato nemmeno rivelato se esista un accordo su un eventuale disimpegno di Lufthansa nel caso di contrasti con il socio pubblico italiano; esisterà senza dubbio, ma solo pensare che un contratto così faticoso possa essere rimesso in discussione in futuro dev’essere stato considerato poco di buon auspicio. |