di Anna Zanardi
Secondo una recente indagine di Nomisma, i docenti italiani sono preoccupati per il drammatico calo dell’attenzione in classe (fenomeno rilevato dal 78% degli intervistati) e dell’interazione tra gli alunni (per il 29%). I segnali di allarme arrivano però soprattutto dall’ansia e dallo stress con cui convivono i ragazzi italiani: l’81% dei docenti intervistati li segnala come fenomeni in deciso aumento, già a partire dalla scuola primaria. Al calo dell’attenzione sembra essere correlata la noia che i ragazzi sperimentano a lezione, e il manifestarsi di comportamenti aggressivi. Un quadro dipinto decisamente a tinte fosche, se si considera che il 71% degli intervistati identifica nei comportamenti dei ragazzi il rischio principale della propria professione, e il 74% si sente poco rispettato dai propri alunni. Sono quindi questi ragazzi annoiati, poco attenti, incapaci di relazionarsi fra pari e sopraffatti dall’ansia e dallo stress, il futuro del nostro Paese? Sono loro che fra poco entreranno in azienda, rischiando di portare con sé tutte queste problematiche?
Credo che la questione sia più complessa e chiami in causa fattori e responsabilità diverse, a partire però dalla scuola. Una scuola condannata all’obsolescenza a partire dalle sue strutture: secondo i dati di una ricerca della Fondazione Agnelli, due edifici scolastici su tre sono stati costruiti prima del 1976, molti hanno più di 100 anni e uno su quattro non è stato costruito per essere una scuola. All’obsolescenza strutturale si unisce quella dei metodi didattici. Le ricerche hanno dimostrato che i giovani hanno una neuroplasticità diversa, che consente loro di essere più veloci e di usare i sensi (visivo e auditivo inclusi) in modo diverso. La didattica tradizionale non è più adatta alle loro capacità e annoiarsi diventa facile, perché non si è adeguatamente stimolati. Una considerazione meritano anche i programmi di studio, che di fatto non vengono aggiornati da tempo: credo che la ripetizione dei soliti classici abbia decisamente fatto il suo tempo. Ci sono però metodi e strumenti che possono essere usati con efficacia: ciò che li stimola è un approccio sense-making, che punti a farli ragionare sul senso che gli argomenti e le tematiche proposti portano alla loro vita. Un approccio decisamente più esperienziale, che coinvolga i loro vissuti personali e familiari, che punti a far emergere l’opinione che i ragazzi hanno di se stessi e che li porti a fare un percorso di autoriflessione che deve essere accompagnato e valorizzato dagli insegnanti. Perché c’è un aspetto che contraddistingue le generazioni più giovani e che è fondamentale che la scuola (ma anche il mondo delle imprese) comprenda: per queste generazioni imparare vuol dire soprattutto sviluppare il proprio potenziale intrinseco, non acquisire informazioni che vengono percepite come scollegate dalla propria vita. Il percorso di formazione deve quindi puntare a sviluppare i talenti e non ad accumulare un bagaglio nozionistico. E questo comporta che anche la valutazione, spesso fonte di ansia e di insicurezze, debba essere modificata. Non conta quante informazioni hai appreso e sono in grado di ripetere, ma quanto sono in grado di utilizzarle come strumenti per la crescita personale e professionale.
Costruirsi un’identità basata sulle loro visioni è per loro stimolante e potrebbe essere la chiave del successo. Se la didattica andasse in quella direzione ci sarebbero molte meno patologie legate all’apprendimento e minore ansia e stress, ma certo servirebbero insegnanti adeguatamente formati. E servirebbe avere ben chiaro che i giovani che siedono in questo periodo sui banchi di scuola non si sentono in grado di performare secondo le nostre aspettative. Ma sono allo stesso tempo estremamente consapevoli di cosa si aspettano da se stessi e dal mondo circostante. Sanno che dovranno fare i conti con un mondo (anche del lavoro) molto diverso da quello che i loro genitori e i loro insegnanti sono in grado di immaginare. E anche se davanti alle incertezze del futuro si sentono confusi e insicuri, sanno però che non troveranno le loro risposte in un modello didattico che ancora fatica a fare i conti con il digitale e le nuove tecnologie. Per questo è insensato, e anche controproducente, chiedere a loro di adeguarsi al nostro modello. Siamo noi adulti, noi formatori, a dover fare uno sforzo per immaginare il futuro a cui saranno destinati e per provare a dare loro gli strumenti migliori per affrontarlo.
Nella foto, una scena famosa del film L’attimo fuggente (Dead Poets Society) del 1989 diretto da Peter Weir e interpretato da Robin Williams