di Maria Elena Viggiano
«E io che volevo mantenere il mio cognome!». Ha risposto così un imprenditore quando ha intrapreso il percorso nel passaggio generazionale nella sua azienda e, suo malgrado, si è reso conto che le caratteristiche necessarie non appartenevano al figlio ma alla figlia. Una consapevolezza che ha infranto il suo sogno della trasmissione del nome, anche se non era proprio così. A raccontare l’episodio è Roberto Marini, psicologo del lavoro e consulente per le imprese familiari.
Perché nessuno ci pensa ma, per gli imprenditori, le aziende sono come dei figli e i cambiamenti, soprattutto quando si parla di passaggio generazionale, non hanno solo un impatto sul business e sull’impresa ma anche sulla famiglia. E come viene vissuto? Quali sono le difficoltà anche da un punto di vista psicologico? Per Marini «è ancora un tabù», lo psicologo è tuttora visto come «il medico dei matti» per cui non c’è un approccio diretto ma si arriva a seguito di un passaparola.
Rispetto al passato, oggi inizia a esserci maggiore consapevolezza. Nasce così il progetto FBU (Family Business Unit), insieme a Luca Marcolin, con lo scopo di sostenere, promuovere e aiutare la realizzazione di obiettivi dei sistemi proprietà, famiglia e impresa. Sviluppo e continuità sono temi centrali ma per Marini «si tratta di mettere a nudo la propria intimità e il passaggio generazionale rappresenta un aspetto in qualche modo luttuoso, a cui bisogna trovare un nuovo senso».
Non è facile per chi lascia, non è facile per chi arriva. Pur trattandosi dello stesso nucleo familiare. Dal punto di vista dell’imprenditore o dell’imprenditrice la difficoltà è scegliere la persona adatta per lo sviluppo dell’azienda e non sempre si tratta del primo figlio, maschio. Raccontando l’esperienza di un’altra azienda familiare, Marini ha rivolto all’imprenditore una domanda: «Che cosa accade all’azienda se manchi per un mese?». Dopo una notte di riflessione, arriva la risposta: «Non andrebbe da nessuna parte». Da questa consapevolezza è iniziato un lungo percorso di riorganizzazione, fin quando l’azienda è diventata parte di un gruppo internazionale.
Spiega Marini: «Seguire un imprenditore è una attività di accompagnamento e di facilitazione che può essere molto lunga, può durare anche cinque anni. C’è un lavoro non semplice da fare su sé stessi». E i figli? Non è raro vedere veri e propri conflitti tra le due generazioni a confronto. L’accusa più comune all’imprenditore riguarda l’assenza dalla famiglia e il poco tempo dedicato ai figli. «Se tu non ci sei mai stato, ora non ti puoi permettere di farmi richieste», è la frase tipo dei figli che, anche in modo legittimo, desiderano seguire le proprie aspirazioni e il proprio talento. Di solito è «la mamma che mantiene un equilibrio in questa situazione e la maggior parte delle volte, si sacrifica». Non è facile fare i conti con le aspettative disattese: «Gli imprenditori ne devono prendere coscienza e capire che ci sono altre soluzioni e strade possibili».
Ma c’è bisogno di formazione, di conoscenze e di strumenti per gestire le situazioni. Marini l’ha capito proprio lavorando nelle imprese. «Non nasco come psicologo ma ho lavorato a lungo nelle imprese come dipendente, poi responsabile fino alla gestione delle persone. In seguito sono diventato un professionista e consulente per le aziende familiari guidato dalla passione per le persone. Perché sono le persone che possono fare la differenza».